The Abbots Way Ultra Trail 2009 -
2 & 3 Maggio 2009 5900 dislivello + 125 km
Da Pontremoli a Bobbio con tappa a Bardi. Due giorni che ti porteranno a correre sull’Appennino Tosco-Emiliano. Per scoprire se stessi e un mondo fatto di sentieri e borghi medievali, sulle tracce degli abati irlandesi che seguirono queste strade 1400 anni fa. Tutto in 125 chilometri......di leggenda!
Riporto di seguito il racconto scritto dal Marco reduce da questa ennesima sfacchinata! lascio a chi legge il giudizio sulla bellezza di questo racconto che intervalla in corsivo brani tratti da "Il Maestro di Castelseprio" un racconto di Raffaele Asni.
ABBOTT’S WAY 2009
Bobbio, venerdì 1 maggio 2009.
Bobbio, venerdì 1 maggio 2009.
Al ritrovo nella piazza principale di Bobbio, in attesa della navetta che ci porterà a Pontremoli, si incrociano visi noti, facce meno note ma subito identificate come trailer dal bagaglio e dalle chiacchiere che si rincorrono in questo tranquillo pomeriggio segnato dal primo vero caldo della stagione. SI sale sul pullman, si prende posto e lentamente ci si lascia cullare dalle 2 ore di viaggio che ci condurranno a Pontremoli.
Per la festa di San Michele, ogni famiglia di contadini doveva portare un terzo del raccolto sullo spiazzo davanti alla chiesa del borgo. Di buon mattino, il preposto benediva con l’acqua del sacro fonte, i sacchi di orzo e di miglio, le ceste colme di frutta e ortaggi, le capre, il pollame e i maiali. Poi i servi del gastaldo Valperto caricavano tutto sui carri e partivano verso meridione per raggiungere Papia e Mediolanum.
Pontremoli, 1 maggio 2009
L’accoglienza e il ritiro dei pettorali sono al castello del Piagnaro, una rocca del 1200/1300 che sorge nella parte alta del paese. Per molti di noi quest sarà anche il luogo dove dormiremo, in comode stanzette ricavate da ambienti del castello, con il suo alone di mistero e la classica leggenda della principessa che di notte si aggira per i corridoi. In serata poi la presentazione del percorso al teatro di Pontremoli, una vera chicca, un piccolo gioiellino a bomboniera con tanto di palchi e sedie di velluto rosso, dove faremo conoscenza con Helyos, Armando e tutti gli splendidi organizzatori della corsa.
Anche gli arimanni delle antiche fare, che abitavano le sale di pietra e possedevano rustici e bestie in gran numero, erano molto devoti a San Michele e salivano al monte per far benedire le spade, le lance, gli scudi e le corazze con cui prestavano servizio nell’esercito del re. Con un grande banchetto sul prato intorno al santuario, si celebrava la fine dell’estate e ci si preparava alle notti lunghe e ai giorni brevi dell’autunno, alle fatiche della vanga e dell’aratro, prima che freddo e neve scendessero a coprire il mondo.
Sabato 2 maggio, Pontremoli ore 7.30
Siamo tutti schierati nel cortile principal del castello, visi tesi, la tensione della gara sui volti di parecchi, i tipici gesti scaramantici: scarpette da legare due o tre volte, zaino da sistemare, la maglietta che porta fortuna, la bandana della gara lunga, poi il fischio di partenza e via, oltre 160 trailer partono sparati come a una mezza maratona, ignorando i km che di li a qualche ora chiederanno il loro dazio di sudore e fatica, crampi e sofferenza. In breve si esce dal centro abitato e si sale per i vecchi sentieri che i pellegrini in viaggio da Bobbio a Roma hanno percorso centinaia di anni prima di noi.
Fu all’alba della vigilia di San Michele che i due figli dell’aldio Venanzio scesero il ripido sentiero, alle spalle del borgo, per inoltrarsi dove la boscaglia è più fitta. I due giovinetti si intrufolarono in mezzo ai rovi, a caccia di un porcellino da arrostire sullo spiedo il giorno seguente.Germano e Fortunato raggiunsero l’argine del fiume, strisciando nell’erba alta.
I sentieri si inerpicano, la temperatura sale, il primo ristoro è una manna , con due simpaticissime signore che insistono a farti assaggiare il miele locale di castagno su fette di pane con le noci. Come deluderle. Poi via ancora, i nomi si susseguono, si arriva a quella perla che è il lago Verde, le cui acque offrono davvero quel colore incastonate in una valletta verdissima, e lì a pochi passi le cascate del Farfarà. Ma il grosso della truppa si perde dietro al cronometro e allora via, giù di corsa verso Borgotaro, incrociando piccoli nuclei di case diroccate, abbandonate, su sentieri che i rovi ormai da tempo contendono con successo alla mano dell’uomo.
Percepirono entrambi un lamento, che lasciava intuire la presenza di un essere dietro un arbusto spinoso: lì giaceva un uomo, avvolto in un logoro mantello di canapa. Aveva gli occhi chiusi e sembrava svenuto. Imbrattato di fango dalla testa ai piedi, il volto coperto da una barba ispida, incuteva un certo timore.
Sabato 2 maggio, Pontremoli ore 7.30
Siamo tutti schierati nel cortile principal del castello, visi tesi, la tensione della gara sui volti di parecchi, i tipici gesti scaramantici: scarpette da legare due o tre volte, zaino da sistemare, la maglietta che porta fortuna, la bandana della gara lunga, poi il fischio di partenza e via, oltre 160 trailer partono sparati come a una mezza maratona, ignorando i km che di li a qualche ora chiederanno il loro dazio di sudore e fatica, crampi e sofferenza. In breve si esce dal centro abitato e si sale per i vecchi sentieri che i pellegrini in viaggio da Bobbio a Roma hanno percorso centinaia di anni prima di noi.
Fu all’alba della vigilia di San Michele che i due figli dell’aldio Venanzio scesero il ripido sentiero, alle spalle del borgo, per inoltrarsi dove la boscaglia è più fitta. I due giovinetti si intrufolarono in mezzo ai rovi, a caccia di un porcellino da arrostire sullo spiedo il giorno seguente.Germano e Fortunato raggiunsero l’argine del fiume, strisciando nell’erba alta.
I sentieri si inerpicano, la temperatura sale, il primo ristoro è una manna , con due simpaticissime signore che insistono a farti assaggiare il miele locale di castagno su fette di pane con le noci. Come deluderle. Poi via ancora, i nomi si susseguono, si arriva a quella perla che è il lago Verde, le cui acque offrono davvero quel colore incastonate in una valletta verdissima, e lì a pochi passi le cascate del Farfarà. Ma il grosso della truppa si perde dietro al cronometro e allora via, giù di corsa verso Borgotaro, incrociando piccoli nuclei di case diroccate, abbandonate, su sentieri che i rovi ormai da tempo contendono con successo alla mano dell’uomo.
Percepirono entrambi un lamento, che lasciava intuire la presenza di un essere dietro un arbusto spinoso: lì giaceva un uomo, avvolto in un logoro mantello di canapa. Aveva gli occhi chiusi e sembrava svenuto. Imbrattato di fango dalla testa ai piedi, il volto coperto da una barba ispida, incuteva un certo timore.
Il primo pomeriggio con il suo calore abbraccia un po’ tutti i concorrenti. E qui la fatica, una salita lunga oltre 17 km, l’eccessivo entusiasmo iniziale chiedono il conto. E lungo il sentiero come grani di rosario incontro trailer stanchi e seduti, qualcuno con problemi di stomaco, un paio di storte, diversi in preda a crisi di disidratazione. Noi pellegrini moderni con il nostro bagaglio tecnologico ancora non riusciamo a capire che di carne e sangue siamo sempre fatti. Chiediamo a volte oltre il nostro limite senza ascoltare la parte di materia che ci lega alla terra.
L’uomo era ancora incosciente. Sotto il mantello fradicio c’era una grossa bisaccia di cuoio. Aveva il polso destro fasciato da una benda sudicia e insanguinata. La ferita doveva essere profonda e, a giudicare dal pallore del viso e dai brividi che ne scuotevano il corpo, il forestiero doveva avere la febbre alta, però non sembrava ammalato di lebbra o di qualche altro morbo contagioso.
La sera a Bardi sembra un po’ una Caporetto. Diversi concorrenti ancora in crisi dopo la dura giornata, la stanchezza sulle facce di molti, la riuncia sulla bocca di qualcuno. Dopo cena ci accompagnano a diversi alberghetti sparsi nelle frazioni intorno a Bardi e dopo pochi minuti le varie camere spengono i loro rumori stanche, alcune soddisfatte, altre con l’amarezza di una rinuncia.
L’uomo fu condotto a casa di Venanzio, il padre dei due giovanetti e subito fu chiamata la vecchia Gerperta che, con le sue mani nodose tastò il collo e la fronte dell’uomo, tolse la benda dalla ferita purulenta e cominciò a trafficare dentro la sacca, biascicando parole incomprensibili nella lingua dei suoi antenati. Senza esitare un istante, Gerperta posò sulla piaga infetta il ferro incandescente, pronunciando più volte la formula arcana: «Ben zi bena, bluot zi bluoda, lid zi geliden, sose gelimida sin.» «Se la febbre sparisce, vivrà, altrimenti Hel se lo porterà via la prossima notte,» dichiarò la vecchia spalmando l’unguento sull’ustione.
Bardi 2 maggio 2009
L’uomo era ancora incosciente. Sotto il mantello fradicio c’era una grossa bisaccia di cuoio. Aveva il polso destro fasciato da una benda sudicia e insanguinata. La ferita doveva essere profonda e, a giudicare dal pallore del viso e dai brividi che ne scuotevano il corpo, il forestiero doveva avere la febbre alta, però non sembrava ammalato di lebbra o di qualche altro morbo contagioso.
La sera a Bardi sembra un po’ una Caporetto. Diversi concorrenti ancora in crisi dopo la dura giornata, la stanchezza sulle facce di molti, la riuncia sulla bocca di qualcuno. Dopo cena ci accompagnano a diversi alberghetti sparsi nelle frazioni intorno a Bardi e dopo pochi minuti le varie camere spengono i loro rumori stanche, alcune soddisfatte, altre con l’amarezza di una rinuncia.
L’uomo fu condotto a casa di Venanzio, il padre dei due giovanetti e subito fu chiamata la vecchia Gerperta che, con le sue mani nodose tastò il collo e la fronte dell’uomo, tolse la benda dalla ferita purulenta e cominciò a trafficare dentro la sacca, biascicando parole incomprensibili nella lingua dei suoi antenati. Senza esitare un istante, Gerperta posò sulla piaga infetta il ferro incandescente, pronunciando più volte la formula arcana: «Ben zi bena, bluot zi bluoda, lid zi geliden, sose gelimida sin.» «Se la febbre sparisce, vivrà, altrimenti Hel se lo porterà via la prossima notte,» dichiarò la vecchia spalmando l’unguento sull’ustione.
Bardi 2 maggio 2009
Un altro castello fa da cornice alla partenza del secondo giorno. Siamo di meno, la notte per qualcuno è stata clemente e lo troviamo alla partenza, per altri ha dato il colpo di grazia e con sguardo mesto ci guardano da un angolo della piazza. Poi via, primi km di asfalto, poi ancora sentieri, rovi, vecchi viottoli che riesce difficile immaginare al buio, senza guida o frecce come abbiamo noi, fango nel sottobosco, bivi che appaiono e scompaiono senza rivelare la giusta via.
I concorrenti si sgranano, facile camminare per lungo tempo senza incontrare nessuno. Solo ai posti di ristoro ci si raduna, si sente che siamo entrati in una regione più “sapida”: prosciutto, salame, coppa, torte salate e crostate abbondano al primo ristoro e…paradossalmente facilitano altri ritiri.
Dopo un paio d’ore l’uomo cominciò ad agitarsi nel sonno. Dalle sue labbra uscirono suoni sconnessi, diversi dai gemiti flebili di prima. Erano parole, segnali inequivocabili che lo sventurato stava tornando tra i vivi. «Come ti chiami?» domandò Cassiano, il diacono che era stato chiamato a bendire l’uomo, appena si rese conto che il forestiero era in grado di comunicare.«Theophanes di Bisanzio…» rispose l’uomo con un filo di voce. «I miei colori… dov’è la sacca con i colori?» chiese ansioso.
Con voce tenue continuo”… «Dopo la fuga, mi sono imbarcato su una nave di mercanti diretta a Ravenna, ma come ho messo piede sul suolo italico, sono stato arrestato dalle guardie dell’Esarca Eutichio, che si è rivelato iconoclasta ancora più accanito del basileus Leone. Mi hanno risparmiato la vita e condannato al taglio della mano destra, in modo che non potessi più dipingere. Al momento dell’esecuzione ho invocato la Vergine, che non mi facesse morire dissanguato tra atroci dolori, e la Madre di Dio deve avere ascoltato la mia supplica, perché nel preciso istante in cui il boia calava la lama sul mio polso, è scoppiato un violento nubifragio e un fulmine è caduto nel cortile della prigione, a un passo dal carnefice, che è stato leggermente colpito e non ha potuto compiere perfettamente l’atroce dovere. Sono stato rimesso in libertà, alla condizione di andarmene per sempre dalla Pentapoli e da tutti i territori dell’Impero. Così ho viaggiato per giorni e notti, con la ferita al polso, sempre più dolorosa, tormentato dalla fame e dalla febbre. Ho seguito il corso di un grande fiume, ho chiesto qua e là un pezzo di pane ai contadini o ai cacciatori che incontravo, ma ero terrorizzato e non riuscivo a farmi capire da nessuno. Alla fine mi sono perso vagando in mezzo a boschi impervi e brughiere selvagge, in preda al delirio della febbre, sempre più alta, e giunto accanto a un fosso, le gambe hanno ceduto e ho abbandonato il mio corpo sul terreno erboso, in attesa della morte.»
Su ancora, su, sempre più su, nel secondo pomeriggio del secondo giorno, con il caldo il sole “che strozza la gola alle rane” come cantano Dalla/Guccini/Morandi, con le gambe che si trascinano e la mente che a malapena registra i nomi dei luoghi: Groppallo, Farini, Vigonzano, Sella dei Generali.
E poi giù, discese scoscese, sentieri in ombra, gli onnipresenti rovi, qualche fontana a cui bagnare la fronte e il cappello, gruppetti di case che ci si chiede come possano essere ancora abitate, ma lo sono come testimoniamo le due galline , un vecchio trattore, uno stendi panni con vecchie tovaglie a quadrettoni, un anziano con il gilet di lana e gli stivali che traffica nell’orto, perso in un tempo e in un ritmo che noi moderni pellegrini abbiamo scordato. E allara al diavolo, rallento, mi fermo, chiacchiero. Scopro che quel paese orami è disabitato, che Bardi una volta faceva 5000 anime e ora arriva a 1500/2000. Che la vecchia scuola elementare è in crisi per i pochi bambini. Che adesso nelle stalle ci vanno solo gli indiani dell’India che sono i soli ad avere la voglia di curare ancora “le bestie” come dicono qui. Mi fermo un attimo vicino a una vecchia chiesetta in rovina, solo un attimo gioco a fare il pellegrino, la sosta, una preghiera, poi ritorno alla modernità e riparto.
Appena la mia mano sarà di nuovo in grado di lavorare, vorrei poter ringraziare Dio di avermi salvato, con l’unico mezzo che ho per farlo: la pittura,» affermò Theophanes. «Potrei dipingere la chiesa di San Giovanni dove custodite la reliquia…»«A dire il vero, ci sarebbe una piccola chiesa, qui fuori dal borgo,» disse Cassiano, «sulla collina dove le pertiche con le colombe ricordano coloro che sono morti lontano da casa, secondo l’uso antico degli arimanni. È solo una piccola cappella, dalle pareti spoglie, ma vorrei dedicarla alla Santa Vergine e ogni anno celebrare la festa dell’Incarnazione del Cristo, affinché il nostro popolo comprenda la vera fede e non cada mai nelle sacrileghe dottrine di Ario ...» «Alla luce dell’alba, salirò sulla collina e porterò con me i colori che ho conservato nella mia bisaccia, l’ocra rosata del Sinai, la polvere di blu egizio, la porpora…» annunciò Theophanes, dopo aver bevuto un sorso di latte appena munto dalla ciotola che gli porse Faustina. «Quando sono fuggito da Costantinopoli, stavo dipingendo la vita della Theotokos, ma non ho potuto terminare la mia opera. Forse è qui, tra questa gente, che la presenza della Madre di Dio, ora è più viva, più necessaria… dunque esaudirò la tua richiesta, diacono Cassiano, dipingerò l’abside di questa piccola chiesa dedicata a Santa Maria, fuori dalle porte del borgo.»
Ultima discesa, Bobbio dall’alto, il vecchio borgo, il ponte di pietra “gobbo” per la sua arcata particolare. E’ l’arrivo, la gioia di aver finito, la maledizione che ti fa dire anche stavolta basta, basta trail, piedi che fanno male, ginocchia che urlano, schiena a pezzi, bocca arsa. Basta….per oggi. Domani si vedrà, chissà, forse. Per Aspera ad Astra, l’Abbott’s Way 2009 non poteva scegliere slogan migliore.
I concorrenti si sgranano, facile camminare per lungo tempo senza incontrare nessuno. Solo ai posti di ristoro ci si raduna, si sente che siamo entrati in una regione più “sapida”: prosciutto, salame, coppa, torte salate e crostate abbondano al primo ristoro e…paradossalmente facilitano altri ritiri.
Dopo un paio d’ore l’uomo cominciò ad agitarsi nel sonno. Dalle sue labbra uscirono suoni sconnessi, diversi dai gemiti flebili di prima. Erano parole, segnali inequivocabili che lo sventurato stava tornando tra i vivi. «Come ti chiami?» domandò Cassiano, il diacono che era stato chiamato a bendire l’uomo, appena si rese conto che il forestiero era in grado di comunicare.«Theophanes di Bisanzio…» rispose l’uomo con un filo di voce. «I miei colori… dov’è la sacca con i colori?» chiese ansioso.
Con voce tenue continuo”… «Dopo la fuga, mi sono imbarcato su una nave di mercanti diretta a Ravenna, ma come ho messo piede sul suolo italico, sono stato arrestato dalle guardie dell’Esarca Eutichio, che si è rivelato iconoclasta ancora più accanito del basileus Leone. Mi hanno risparmiato la vita e condannato al taglio della mano destra, in modo che non potessi più dipingere. Al momento dell’esecuzione ho invocato la Vergine, che non mi facesse morire dissanguato tra atroci dolori, e la Madre di Dio deve avere ascoltato la mia supplica, perché nel preciso istante in cui il boia calava la lama sul mio polso, è scoppiato un violento nubifragio e un fulmine è caduto nel cortile della prigione, a un passo dal carnefice, che è stato leggermente colpito e non ha potuto compiere perfettamente l’atroce dovere. Sono stato rimesso in libertà, alla condizione di andarmene per sempre dalla Pentapoli e da tutti i territori dell’Impero. Così ho viaggiato per giorni e notti, con la ferita al polso, sempre più dolorosa, tormentato dalla fame e dalla febbre. Ho seguito il corso di un grande fiume, ho chiesto qua e là un pezzo di pane ai contadini o ai cacciatori che incontravo, ma ero terrorizzato e non riuscivo a farmi capire da nessuno. Alla fine mi sono perso vagando in mezzo a boschi impervi e brughiere selvagge, in preda al delirio della febbre, sempre più alta, e giunto accanto a un fosso, le gambe hanno ceduto e ho abbandonato il mio corpo sul terreno erboso, in attesa della morte.»
Su ancora, su, sempre più su, nel secondo pomeriggio del secondo giorno, con il caldo il sole “che strozza la gola alle rane” come cantano Dalla/Guccini/Morandi, con le gambe che si trascinano e la mente che a malapena registra i nomi dei luoghi: Groppallo, Farini, Vigonzano, Sella dei Generali.
E poi giù, discese scoscese, sentieri in ombra, gli onnipresenti rovi, qualche fontana a cui bagnare la fronte e il cappello, gruppetti di case che ci si chiede come possano essere ancora abitate, ma lo sono come testimoniamo le due galline , un vecchio trattore, uno stendi panni con vecchie tovaglie a quadrettoni, un anziano con il gilet di lana e gli stivali che traffica nell’orto, perso in un tempo e in un ritmo che noi moderni pellegrini abbiamo scordato. E allara al diavolo, rallento, mi fermo, chiacchiero. Scopro che quel paese orami è disabitato, che Bardi una volta faceva 5000 anime e ora arriva a 1500/2000. Che la vecchia scuola elementare è in crisi per i pochi bambini. Che adesso nelle stalle ci vanno solo gli indiani dell’India che sono i soli ad avere la voglia di curare ancora “le bestie” come dicono qui. Mi fermo un attimo vicino a una vecchia chiesetta in rovina, solo un attimo gioco a fare il pellegrino, la sosta, una preghiera, poi ritorno alla modernità e riparto.
Appena la mia mano sarà di nuovo in grado di lavorare, vorrei poter ringraziare Dio di avermi salvato, con l’unico mezzo che ho per farlo: la pittura,» affermò Theophanes. «Potrei dipingere la chiesa di San Giovanni dove custodite la reliquia…»«A dire il vero, ci sarebbe una piccola chiesa, qui fuori dal borgo,» disse Cassiano, «sulla collina dove le pertiche con le colombe ricordano coloro che sono morti lontano da casa, secondo l’uso antico degli arimanni. È solo una piccola cappella, dalle pareti spoglie, ma vorrei dedicarla alla Santa Vergine e ogni anno celebrare la festa dell’Incarnazione del Cristo, affinché il nostro popolo comprenda la vera fede e non cada mai nelle sacrileghe dottrine di Ario ...» «Alla luce dell’alba, salirò sulla collina e porterò con me i colori che ho conservato nella mia bisaccia, l’ocra rosata del Sinai, la polvere di blu egizio, la porpora…» annunciò Theophanes, dopo aver bevuto un sorso di latte appena munto dalla ciotola che gli porse Faustina. «Quando sono fuggito da Costantinopoli, stavo dipingendo la vita della Theotokos, ma non ho potuto terminare la mia opera. Forse è qui, tra questa gente, che la presenza della Madre di Dio, ora è più viva, più necessaria… dunque esaudirò la tua richiesta, diacono Cassiano, dipingerò l’abside di questa piccola chiesa dedicata a Santa Maria, fuori dalle porte del borgo.»
Ultima discesa, Bobbio dall’alto, il vecchio borgo, il ponte di pietra “gobbo” per la sua arcata particolare. E’ l’arrivo, la gioia di aver finito, la maledizione che ti fa dire anche stavolta basta, basta trail, piedi che fanno male, ginocchia che urlano, schiena a pezzi, bocca arsa. Basta….per oggi. Domani si vedrà, chissà, forse. Per Aspera ad Astra, l’Abbott’s Way 2009 non poteva scegliere slogan migliore.
Marco Civardi
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