Fra le tante stranezze o fatti strepitosi che accompagnano la vita dei santi,
prima e dopo la morte, ce n'è uno in particolare che riguarda s. Rita da Cascia,
una delle sante più venerate in Italia e nel mondo cattolico, ed è che essa è
stata beatificata ben 180 anni dopo la sua morte e addirittura proclamata santa
a 453 anni dalla morte.
Quindi una santa che ha avuto un cammino ufficiale
per la sua canonizzazione molto lento (si pensi che sant’Antonio di Padova fu
proclamato santo un anno dopo la morte), ma nonostante ciò s. Rita è stata ed è
una delle più venerate ed invocate figure della santità cattolica, per i prodigi
operati e per la sua umanissima vicenda terrena.
Rita ha il titolo di “santa
dei casi impossibili”, cioè di quei casi clinici o di vita, per cui non ci sono
più speranze e che con la sua intercessione, tante volte miracolosamente si sono
risolti.
Nacque intorno al 1381 a Roccaporena, un villaggio montano a 710
metri s. m. nel Comune di Cascia, in provincia di Perugia; i suoi genitori
Antonio Lottius e Amata Ferri erano già in età matura quando si sposarono e solo
dopo dodici anni di vane attese, nacque Rita, accolta come un dono della
Provvidenza.
La vita di Rita fu intessuta di fatti prodigiosi, che la
tradizione, più che le poche notizie certe che possediamo, ci hanno tramandato;
ma come in tutte le leggende c’è alla base senz’altro un fondo di verità.
Si
racconta quindi che la madre molto devota, ebbe la visione di un angelo che le
annunciava la tardiva gravidanza, che avrebbero ricevuto una figlia e che
avrebbero dovuto chiamarla Rita; in ciò c’è una similitudine con s. Giovanni
Battista, anch’egli nato da genitori anziani e con il nome suggerito da una
visione.
Poiché a Roccaporena mancava una chiesa con fonte battesimale, la
piccola Rita venne battezzata nella chiesa di S. Maria della Plebe a Cascia e
alla sua infanzia è legato un fatto prodigioso; dopo qualche mese, i genitori,
presero a portare la neonata con loro durante il lavoro nei campi, riponendola
in un cestello di vimini poco distante.
E un giorno mentre la piccola
riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori stavano un po’ più lontani,
uno sciame di api le circondò la testa senza pungerla, anzi alcune di esse
entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del miele. Nel frattempo un
contadino che si era ferito con la falce ad una mano, lasciò il lavoro per
correre a Cascia per farsi medicare; passando davanti al cestello e visto la
scena, prese a cacciare via le api e qui avvenne la seconda fase del prodigio,
man mano che scuoteva le braccia per farle andare via, la ferita si rimarginò
completamente. L’uomo gridò al miracolo e con lui tutti gli abitanti di
Roccaporena, che seppero del prodigio.
Rita crebbe nell’ubbidienza ai
genitori, i quali a loro volta inculcarono nella figlia tanto attesa, i più vivi
sentimenti religiosi; visse un’infanzia e un’adolescenza nel tranquillo borgo di
Roccaporena, dove la sua famiglia aveva una posizione comunque benestante e con
un certo prestigio legale, perché a quanto sembra ai membri della casata
Lottius, veniva attribuita la carica di ‘pacieri’ nelle controversie civili e
penali del borgo.
Già dai primi anni dell’adolescenza Rita manifestò
apertamente la sua vocazione ad una vita religiosa, infatti ogni volta che le
era possibile, si ritirava nel piccolo oratorio, fatto costruire in casa con il
consenso dei genitori, oppure correva al monastero di Santa Maria Maddalena
nella vicina Cascia, dove forse era suora una sua parente.
Frequentava anche
la chiesa di S. Agostino, scegliendo come suoi protettori i santi che lì si
veneravano, oltre s. Agostino, s. Giovanni Battista e Nicola da Tolentino,
canonizzato poi nel 1446. Aveva tredici anni quando i genitori, forse obbligati
a farlo, la promisero in matrimonio a Fernando Mancini, un giovane del borgo,
conosciuto per il suo carattere forte, impetuoso, perfino secondo alcuni
studiosi, brutale e violento.
Rita non ne fu entusiasta, perché altre erano
le sue aspirazioni, ma in quell’epoca il matrimonio non era tanto stabilito
dalla scelta dei fidanzati, quando dagli interessi delle famiglie, pertanto ella
dovette cedere alle insistenze dei genitori e andò sposa a quel giovane
ufficiale che comandava la guarnigione di Collegiacone, del quale “fu vittima e
moglie”, come fu poi detto.
Da lui sopportò con pazienza ogni maltrattamento,
senza mai lamentarsi, chiedendogli con ubbidienza perfino il permesso di andare
in chiesa. Con la nascita di due gemelli e la sua perseveranza di rispondere con
la dolcezza alla violenza, riuscì a trasformare con il tempo il carattere del
marito e renderlo più docile; fu un cambiamento che fece gioire tutta
Roccaporena, che per anni ne aveva dovuto subire le angherie.
I figli
Giangiacomo Antonio e Paolo Maria, crebbero educati da Rita Lottius secondo i
principi che le erano stati inculcati dai suoi genitori, ma essi purtroppo
assimilarono anche gli ideali e regole della comunità casciana, che fra l’altro
riteneva legittima la vendetta.
E venne dopo qualche anno, in un periodo non
precisato, che a Rita morirono i due anziani genitori e poi il marito fu ucciso
in un’imboscata una sera mentre tornava a casa da Cascia; fu opera senz’altro di
qualcuno che non gli aveva perdonato le precedenti violenze subite.
Ai figli
ormai quindicenni, cercò di nascondere la morte violenta del padre, ma da quel
drammatico giorno, visse con il timore della perdita anche dei figli, perché
aveva saputo che gli uccisori del marito, erano decisi ad eliminare gli
appartenenti al cognome Mancini; nello stesso tempo i suoi cognati erano decisi
a vendicare l’uccisione di Fernando Mancini e quindi anche i figli sarebbero
stati coinvolti nella faida di vendette che ne sarebbe seguita.
Narra la
leggenda che Rita per sottrarli a questa sorte, abbia pregato Cristo di non
permettere che le anime dei suoi figli si perdessero, ma piuttosto di toglierli
dal mondo, “Io te li dono. Fà di loro secondo la tua volontà”. Comunque un anno
dopo i due fratelli si ammalarono e morirono, fra il dolore cocente della
madre.
Al contrario di s. Rita che
pur di spezzare l’incipiente faida creatasi, chiese a Dio di riprendersi i
figli, purché non si macchiassero a loro volta della vendetta e
dell’omicidio.
S. Rita è un modello di donna adatto per i tempi duri. I suoi
furono giorni di un secolo tragico per le lotte fratricide, le pestilenze, le
carestie, con gli eserciti di ventura che invadevano di continuo l’Italia e
anche se nella bella Valnerina questi eserciti non passarono, nondimeno la fame
era presente.
Poi la violenza delle faide locali aggredì l’esistenza di Rita
Lottius, distruggendo quello che si era costruito; ma lei non si abbatté, non
passò il resto dei suoi giorni a piangere, ma ebbe il coraggio di lottare, per
fermare la vendetta e scegliere la pace. Venne circondata subito di una buona
fama, la gente di Roccaporena la cercava come popolare giudice di pace, in quel
covo di vipere che erano i Comuni medioevali. Esempio fulgido di un ruolo
determinante ed attivo della donna, nel campo sociale, della pace, della
giustizia.
Ormai libera da vincoli familiari, si rivolse alle Suore
Agostiniane del monastero di S. Maria Maddalena di Cascia per essere accolta fra
loro; ma fu respinta per tre volte, nonostante le sue suppliche. I motivi non
sono chiari, ma sembra che le Suore temessero di essere coinvolte nella faida
tra famiglie del luogo e solo dopo una riappacificazione, avvenuta pubblicamente
fra i fratelli del marito ed i suoi uccisori, essa venne accettata nel
monastero.
Per la tradizione, l’ingresso avvenne per un fatto miracoloso, si
narra che una notte, Rita come al solito, si era recata a pregare sullo
“Scoglio” (specie di sperone di montagna che s’innalza per un centinaio di metri
al disopra del villaggio di Roccaporena), qui ebbe la visione dei suoi tre santi
protettori già citati, che la trasportarono a Cascia, introducendola nel
monastero, si cita l’anno 1407; quando le suore la videro in orazione nel loro
coro, nonostante tutte le porte chiuse, convinte dal prodigio e dal suo sorriso,
l’accolsero fra loro.
Quando avvenne ciò Rita era intorno ai trent’anni e
benché fosse illetterata, fu ammessa fra le monache coriste, cioè quelle suore
che sapendo leggere potevano recitare l’Ufficio divino, ma evidentemente per
Rita fu fatta un’eccezione, sostituendo l’ufficio divino con altre
orazioni.
La nuova suora s’inserì nella comunità conducendo una vita di
esemplare santità, praticando carità e pietà e tante penitenze, che in breve
suscitò l’ammirazione delle consorelle. Devotissima alla Passione di Cristo,
desiderò di condividerne i dolori e questo costituì il tema principale delle sue
meditazioni e preghiere.
Gesù l’esaudì e un giorno nel 1432, mentre era in
contemplazione davanti al Crocifisso, sentì una spina della corona del Cristo
conficcarsi nella fronte, producendole una profonda piaga, che poi divenne
purulenta e putrescente, costringendola ad una continua segregazione.
La
ferita scomparve soltanto in occasione di un suo pellegrinaggio a Roma, fatto
per perorare la causa di canonizzazione di s. Nicola da Tolentino, sospesa dal
secolo precedente; ciò le permise di circolare fra la gente.
Si era talmente
immedesimata nella Croce, che visse nella sofferenza gli ultimi quindici anni,
logorata dalle fatiche, dalle sofferenze, ma anche dai digiuni e dall’uso dei
flagelli, che erano tanti e di varie specie; negli ultimi quattro anni si cibava
così poco, che forse la Comunione eucaristica era il suo unico sostentamento e
fu costretta a restare coricata sul suo giaciglio.
E in questa fase finale
della sua vita, avvenne un altro prodigio, essendo immobile a letto, ricevé la
visita di una parente, che nel congedarsi le chiese se desiderava qualcosa della
sua casa di Roccaporena e Rita rispose che le sarebbe piaciuto avere una rosa
dall’orto, ma la parente obiettò che si era in pieno inverno e quindi ciò non
era possibile, ma Rita insisté.
Tornata a Roccaporena la parente si recò
nell’orticello e in mezzo ad un rosaio, vide una bella rosa sbocciata, stupita
la colse e la portò da Rita a Cascia, la quale ringraziando la consegnò alle
meravigliate consorelle.
Così la santa vedova, madre, suora, divenne la santa
della ‘Spina’ e la santa della ‘Rosa’; nel giorno della sua festa questi fiori
vengono benedetti e distribuiti ai fedeli.
Il 22 maggio 1447 Rita si spense,
mentre le campane da sole suonavano a festa, annunciando la sua ‘nascita’ al
cielo. Si narra che il giorno dei funerali, quando ormai si era sparsa la voce
dei miracoli attorno al suo corpo, comparvero delle api nere, che si annidarono
nelle mura del convento e ancora oggi sono lì, sono api che non hanno un
alveare, non fanno miele e da cinque secoli si riproducono fra quelle
mura.
Per singolare privilegio il suo corpo non fu mai sepolto, in qualche
modo trattato secondo le tecniche di allora, fu deposto in una cassa di
cipresso, poi andata persa in un successivo incendio, mentre il corpo
miracolosamente ne uscì indenne e riposto in un artistico sarcofago ligneo,
opera di Cesco Barbari, un falegname di Cascia, devoto risanato per
intercessione della santa.
Sul sarcofago sono vari dipinti di Antonio da
Norcia (1457), sul coperchio è dipinta la santa in abito agostiniano, stesa nel
sonno della morte su un drappo stellato; il sarcofago è oggi conservato nella
nuova basilica costruita nel 1937-1947; anche il corpo riposa incorrotto in
un’urna trasparente, esposto alla venerazione degli innumerevoli fedeli, nella
cappella della santa nella Basilica-Santuario di S. Rita a Cascia.
Accanto
al cuscino è dipinta una lunga iscrizione metrica che accenna alla vita della
“Gemma dell’Umbria”, al suo amore per la Croce e agli altri episodi della sua
vita di monaca santa; l’epitaffio è in antico umbro ed è di grande interesse
quindi per conoscere il profilo spirituale di S. Rita.
Bisogna dire che il
corpo rimasto prodigiosamente incorrotto e a differenza di quello di altri
santi, non si è incartapecorito, appare come una persona morta da poco e non
presenta sulla fronte la famosa piaga della spina, che si rimarginò
inspiegabilmente dopo la morte.
Tutto ciò è documentato dalle relazioni
mediche effettuate durante il processo per la beatificazione, avvenuta nel 1627
con papa Urbano VIII; il culto proseguì ininterrotto per la santa chiamata “la
Rosa di Roccaporena”; il 24 maggio 1900 papa Leone XIII la canonizzò
solennemente.
Al suo nome vennero intitolate tante iniziative assistenziali,
monasteri, chiese in tutto il mondo; è sorta anche una pia unione denominata
“Opera di S. Rita” preposta al culto della santa, alla sua conoscenza, ai
continui pellegrinaggi e fra le tante sue realizzazioni effettuate, la cappella
della sua casa, la cappella del “Sacro Scoglio” dove pregava, il santuario di
Roccaporena, l’Orfanotrofio, la Casa del Pellegrino.
Il cuore del culto
comunque resta il Santuario ed il monastero di Cascia, che con Assisi, Norcia,
Cortona, costituiscono le culle della grande santità umbra.